A proposito del Cane e del Lupo
Dal cinismo di Diogene alla lupa dantesca: un viaggio tra etimologie, caccia e voci dei cani
E veniamo al cane (latino canem, confrontabile con il greco kýon, kynós.), il grande amico dell’uomo. In vero, nonostante l’amicizia e la fedeltà del cane (si dice: essere fedele come un cane), l’uomo ha fatto oggetto il suo amico di paragoni non sempre edificanti, come ‘tempo da cani’, ovvero molto brutto, ‘cose fatte da cani’, ovvero molto male, ed ancora ‘essere un cane’ ad indicare persona vile ed abietta.
Ed il nostro termine cinico, per indicare chi è indifferente, disprezzandoli, ai valori ed ai sentimenti umani, ha qualcosa a che fare col cane? Ebbene, cinico deriva dall’aggettivo latino cynicum, a sua volta dal greco kynicós, ambedue con il significato di canino, da cane. Lo specifico significato deriva dal disprezzo che i filosofi Cinici, Diogene di Sinope in testa, dimostrarono per le convenienze sociali. Fu Antistene che, nella prima metà del IV secolo a.e.v., fondò ad Atene una scuola filosofica, caratterizzata da un lato dal disprezzo per la scienza, che secondo Antistene non era capace di produrre conoscenza, e dall’altro dall’estraneità ai piaceri, ai vizi e in generale alla vita sociale. Il nome di Cinici deriva, secondo alcuni, da un sobborgo di Atene, Cinoserge, dov’era il ginnasio in cui i Cinici tenevano lezione, ma, perlopiù, lo si fa derivare dall’epiteto di ‘Cane’ affibbiato a Diogene di Sinope, il seguace più famoso di Antistene. E Diogene lo accettò volentieri come simbolo del suo modo di vivere secondo natura, simile a quello degli animali, visto che lui disprezzava le conquiste dell’umana società (famiglia, leggi, progresso, arti) e nel contempo sia i beni sia i mali (malattia, schiavitù, morte), nei confronti dei quali era del tutto indifferente. Unica cosa importante, unico bene la virtù come dominio di sé. Diogene era stimato dai suoi concittadini, dal momento che le sue idee ‘strampalate’ non si limitava a proclamarle, ma le metteva in pratica, camminando a piedi scalzi in qualsiasi stagione, dormendo sotto i ponti o al più in una botte coperto dal suo solo mantello. La vita di Diogene, che aveva per amico proprio un cane, era così essenziale che, oltre al mantello possedeva una bisaccia, un bastone ed una ciotola per bere: ma un giorno vide un fanciullo che beveva ad una fonte dal cavo della mano, per cui, riflettendo di avere ancora qualcosa di superfluo, spezzò la sua ciotola e la gettò via. E resta famoso l’episodio in cui fu visto in pieno mezzogiorno camminare per Atene con una lanterna accesa in mano, così rispondendo ai curiosi: “cerco un uomo”, nel senso di autentico, che viva secondo la sua natura, senza essere schiavo delle passioni e del lusso. Da qui il detto ‘lanterna di Diogene’ per indicare una cosa impossibile a trovarsi. Ma cercare con la lanterna o con il lanternino, o come si dice in romanesco cercà cor lanternino, vuol dire cercare con impegno ed ostinazione, mentre cercassela cor lanternino, significa che i guai uno se li va a cercare, quando potrebbe evitarli.
Un modo di vedere un po’ diverso dal nostro quello di Diogene ! Non so se molti di noi si limiterebbero a definirle idee strampalate, ovvero strane, stravaganti. Strampalato è di etimo incerto, per cui sono state avanzate varie ipotesi. Forse è collegato con il termine trampoli, o meglio alla sua variante trampali, da trampolare, verbo in disuso che ci viene dal tedesco medio alto tranpeln, con il significato quest’ultimo di calpestare, camminare pesantemente. Da un lato si dice che strampalato potrebbe indicare uno che si differenzia dagli altri come chi va sui trampoli; dall’altro, dando alla s- valore sottrattivo, uno che è sfornito di trampoli quando, invece, sarebbero necessari e, quindi, che si muove con difficoltà.
Ma altri collegano strampalato ad extra-palatus, dal verbo latino palari, vagare separatamente, disperdersi; ricorderebbe la formazione di stravagante, che viene dal latino medievale extravagantem, dal verbo vagari (errare ed il nostro vagare) che origina da vagus, errante, vagante, ma anche indeciso ed indeterminato, da cui il nostro vago.
Infine c’è chi pensa che strampalato possa derivare dall’incontro di strambo o strano con impalato.
E strambo viene dal tardo latino strambum, per il classico strabum, dal greco strabós, con gli occhi storti ma anche losco. E’ stato, invece, ricavato direttamente dal greco strabismós, come voce dotta, il nostro strabismo. In poesia, sembra che dalla sovrapposizione di strambo con il termine provenzale estribot, che indicava un componimento satirico, sia venuto il nostro strambotto, breve componimento poetico satirico o amoroso d’origine popolare, così detto non tanto perché non rispettoso delle regole formali, quanto per il suo contenuto.
A questo punto, prima di abbandonare canino, parliamo brevemente di rose, osservando che se la rosa tea è così detta perché profuma di tè, per la rosa canina o di bosco il profumo non c’entra, essendo chiamata così perché si riteneva che con le sue radici si potesse curare la rabbia dei cani.
Ma torniamo all’amico dell’uomo, che possiede il record dei termini con i quali sono indicati i suoi molteplici versi:
abbaiare (onomatopeico): il cane abbaia in segno di minaccia o di semplice avvertimento ovvero di festa, provocando, quindi, a volte paura ed a volte gioia;
guaiolare (da guaire): lamento insistente, significato che, con piccole sfumature, si ritrova anche nei verbi guaire e mugolare (latino parlato *mugulare, variante di mugilare da mugire) ed ancora gagnolare , che insieme a guaiolare, guaire ed abbaiare si usa anche per la volpe (latino vulpem). Guaire potrebbe essere dal latino vagire, con mutamento di va- in gua- per influsso di parecchie voci germaniche: stessa sorte è occorsa anche al nostro guaìna (ma comunemente pronunciato guàina), derivante dal latino vagina, indicante il fodero della spada, tipica arma da sguainare. Ma, come è noto, la lingua italiana ha ereditato, come voce dotta, anche vagina, che, come termine letterario, sta ad indicare il fodero, mentre, come termine d’anatomia, ha a che fare con l’apparato genitale femminile.
Altri sostengono l’origine onomatopeica di guaire ed altri ancora una sua derivazione da plurale guai nel senso di grida di lamento. Guaio viene dall’interiezione guài (perché intesa come plurale), a sua volta dal gotico wai, d’origine onomatopeica, dove pure il va- si è trasformato in gua-, (c’è, naturalmente, il “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti” di Gesù, Mt. 23,15, che nella Vulgata di S. Girolamo suona “Vae vobis, scribae et pharisaei hypocritae”, dove vae traduce il uaí greco);
latrare (latino latrare): quando il cane abbaia con insistenza e violenza, per avvertire del pericolo;
ringhiare: qui siamo alla minaccia vera e propria, con tanto di digrignamento dei denti. Ringhiare viene forse dal latino parlato *ringulare dal termine classico ‘ringi’, ’digrignare i denti’, oppure dall’antico francese grignier, far stridere i denti, oggi grincer,. Ringhiare si dice anche del lupo e del cavallo;
schiattire (onomatopeico): è l’emissione di brevi guaiti, ma è termine ormai desueto, sostituito da squittire, di cui fra poco;
uggiolare (latino eiulare, lamentarsi ad alta voce, forse dall’esclamazione di dolore ei incrociata con ululare): il lamentarsi, soprattutto dei cuccioli, per fame, dolore, assenza del padrone con guaiti o mugolii insistenti, così piacevoli per i vicini di casa; - ululare (latino ululare): è l’urlo lamentoso tipico del cane e del lupo, ma anche delle fiere e di alcuni uccelli: con ulula, di origine onomatopeica, i Latini indicavano uccelli notturni dal grido di malaugurio, come barbagianni, gufo e allocco. Ululare ha dato il nome ad un piccolo anfibio, simile al rospo, l’ululone, per via dell’insistente grido che emette durante la stagione degli amori.
Parlando del topo abbiamo già visto che per i cani da seguito, quando avvertono la presenza della selvaggina ed abbaiano sommessamente, si dice che squittiscono. Il cane da seguito o segugio (latino segusium di probabile origine gallica) è il cane da caccia adatto ad inseguire la selvaggina ed ha come caratteristiche principali il muso lungo, il corpo snello e l’odorato finissimo. Oggi il segugio viene usato per lo più come cane singolo, mentre in passato ha trovato la sua piena realizzazione nella muta di grandi o piccole entità. ‘Muta’, che ci viene, attraverso il francese meute, dal latino parlato *movitam participio passato del verbo movēre, muovere, è il branco di cani che ha il compito di scovare e di inseguire la selvaggina. La scelta del branco non va lasciata al caso, ma effettuata con cura in modo che ogni suo membro abbia un ruolo ben preciso: il guidaiolo, ad esempio, ha il compito di precedere e guidare il branco; lo scovatore o cane da scovo, invece, è addestrato per scovare la selvaggina, come far uscire la volpe dal covo, o a segnalarne la presenza agitando la coda o con altro segnale; l’inseguitore ad inseguirla.
E’ l’occasione per approfondire alcuni termini: muta, branco, covo e simili.
Muta
Muta, dal francese meute, non ha nulla a che vedere con l’omografo muta, dal latino mutare, mutare, cambiare, con vari significati, tra i quali cambio, sostituzione, per cui la ‘muta dei cavalli’ con riferimento a quest’ultimo termine significa il cambio dei cavalli alla stazione di posta, mentre con riferimento al primo termine (da movēre) è l’insieme dei cavalli accoppiati per tirare una carrozza. Muta da mutare significa anche il rinnovamento periodico della pelle o delle formazioni cutanee (peli, penne, squame) in molti animali; ed altresì il corredo completo di oggetti utili per un determinato scopo, nonché la tuta aderente che si indossa per le immersioni subacquee: quest’ultimo significato è entrato nell’uso marinaro attraverso ‘muta di macchina’, che indicava il vestito da lavoro dei fuochisti e degli elettricisti sulle navi da guerra. S’usa ancora scherzare sulla locuzione avverbiale latina ‘mutatis mutandis’, che letteralmente significa ‘mutate le cose che si devono mutare’, ovvero ‘fatti i debiti cambiamenti’ ed alla quale si ricorre quando si fanno confronti o paragoni tra fenomeni che, pur assimilabili, presentano, tuttavia, differenze di cui si deve tener conto. Lo ‘scherzo’ consiste nel tradurre l’espressione ‘mutate le mutande’, con riferimento all’indumento intimo, che ci viene dal latino medioevale ‘mutanda’, (le cose) che devono essere cambiate, ovvero le vesti intime di ricambio.
Sorvolando sul derivato del verbo latino mutare mutuus, dato in cambio, il quale ha generato sia il mutuo, prestito a lunga scadenza sia la mutua ovvero la società od ente con finalità di previdenza ed assistenza, va, infine, ricordato che muta è anche il femminile di muto, che non parla, dal latino mutum, termine usato in origine con riferimento agli animali capaci di fare solo mu.
Branco
Branco è un raggruppamento di animali della stessa specie e viene da branca, dal latino brancam, zampa munita di artigli passata poi a significare gruppo: la branca è per gli animali, in qualche modo, quello che la mano è per gli uomini, per cui un branco di lupi o di altri animali equivale a quello che sta in una mano ovvero, come ancora oggi si dice, ad un pugno di…. soldati, persone e così via. D’altronde il riferimento alla mano (che afferra) lo ritroviamo sia nel verbo brancare, afferrare, abbrancare, sia nel verbo brancolare, ‘andare a tentoni’ stendendo la mano in varie direzioni per cercare qualcosa, non individuabile con gli occhi, a cui afferrarsi.
Nella nostra lingua, oltre al significato di zampa di animale con artigli, branca ha assunto varie accezioni, tra cui ciascuna delle due parti di un arnese (compasso, tenaglie), ramo dello scibile (branche del sapere, della medicina, del diritto ….), rampa di scale.
Covo
Covo viene dal verbo covare, ‘stare sulle uova per riscaldarle ’ dal latino cubare, ‘essere disteso sopra un giaciglio, giacere’. In senso figurato covo indica un luogo in cui si riuniscono persone poco raccomandabili. Da covo abbiamo il verbo scovare, ovvero fare uscire dal covo e, quindi, scoprire, trovare. Anche da tana, la buca in cui si rifugiano animali selvatici, e da nido, il ricovero per lo più costruito da molti uccelli, sono stati tratti analoghi significati figurati.
Tana
Tana si pensa derivi dal latino volgare subtanam, che, venendo dall’avverbio subtus, di sotto, significava ‘che sta sotto’ (sotterranea) e sottintendeva cavernam o foveam, termini con cui in latino si indicava una caverna o una fossa: sub è stato interpretato come preposizione e, quindi, lasciato cadere, per cui è rimasto tana. Ma il nostro fossa viene dal latino fossam, a sua volta dal participio passato di fodere, scavare, che potrebbe averci dato anche fogna, attraverso un lungo cammino, che inizia con fodere e prosegue con fodina, cava, da cui il latino volgare *fodinare e, infine, *fognare, scavare. Altri indicano un cammino più breve, che inizia con fundum, fondo, da cui il latino volgare *fundiare, scavare, da cui fognare e, quindi, fogna. Secondo la prima ipotesi l’italiano fognare deriverebbe da fogna, mentre, per la seconda ipotesi, sarebbe fogna a derivare da fognare, il che contrasta con il fatto che il termine fognare risulta attestato circa tre secoli dopo il termine fogna.
Dall’aggettivo subtus, senza peraltro caduta di ‘sub’, viene anche la nostra (veste) sottana, che in origine indicava l’indumento femminile da portare sotto l’abito. Da tana, in senso figurato rifugio ma anche stamberga, abbiano stanare, fare uscire dalla tana e, quindi, fare uscire allo scoperto.
Nido
Nido viene dal latino nidum, nido e in senso traslato dimora, di origine indoeuropea. Da noi, in senso figurato, accanto a significati negativi, come nido di vipere o nido di briganti, indica anche ciò che ci può essere più caro, come la casa o un ‘nido d’amore’ o, ancora, il posto dove lasciamo i nostri ‘cuccioli’ (con o senza asilo). E da nido abbiamo snidare con significati analoghi a scovare e stanare.
Ma torniamo ai cani, a proposito dei quali, il Comune di Roma, e non solo, periodicamente ritorna sul problema del decoro della città, magari inasprendo le sanzioni nei confronti dei proprietari di cani che non ottemperano all’obbligo di raccogliere quelle che nelle disposizioni comunali vengono definite ‘deiezioni canine’. Perché si chiamano deiezioni?
La lingua latina aveva un verbo iacēre, infinito di iaceo, con il significato di giacere, star coricato, che in questo contesto non ci interessa, ed un verbo iacĕre, infinito di iacio, con il significato di gettare, scagliare. Da iacĕre e dal suo intensivo iactāre furono formati i verbi deicĕre e deiectāre, con significati analoghi di gettare giù, scagliare, rovesciare, abbattere: è proprio da deiectāre che viene il termine tardo latino deiectionem, il quale oltre ad indicare l’abbattimento, il rovesciare, ad esempio, statue, veniva utilizzato in medicina con il significato di evacuazione. Il corrispondente temine italiano deiezione oltre ad indicare il deposito di materiali erosi trasportati dalle acque ed una fase dell’attività vulcanica (emissione violenta di materiale solido nell’atmosfera), ha mantenuto, come termine medico ma non solo, il significato di espulsione di rifiuti organici. Anzi il plurale ‘deiezioni’ viene utilizzato specificamente per indicare gli escrementi, per cui si parla di deiezioni umane e di deiezioni animali, come nel caso di quelle canine. Ma abbandoniamo le sgradevoli deiezioni e seguiamo, invece, le sorti di iacĕre e iactāre. Il primo, tramite il suo participio passato iactus, ha generato nella lingua latina iacturam con il significato originario di ‘gettare fuori della nave (il carico in caso di tempesta)’ e con quelli conseguenti figurati di perdita, danno, disgrazia, che ha mantenuto anche l’italiano iattura. Cicerone, nel suo De Officiis (I Doveri), usa il termine iacturam riferendo delle questioni poste dal filosofo greco stoico Ecatone nel suo libro Sui Doveri, non pervenutoci. Tra le altre Ecatone si domanda ‘ si in mari iactura facienda sit, equine pretiosi potius iacturam faciant an servuli vilis’ ( nel caso in mare si dovesse gettare zavorra, ci si sbarazzerà piuttosto di un cavallo pregiato o di un servo di poco valore). Lasciamo la questione con la semplice osservazione di Cicerone: l’interesse patrimoniale porta ad una conclusione, l’umanità ad un’altra.
A sua volta iactare, che oltre al significato di lanciare, buttar fuori aveva anche quelli traslati di ‘trattare ripetutamente di, menzionare spesso qualcuno o qualcosa’ e su questa strada quelli altresì di vantarsi, pavoneggiarsi, generò il termine latino iactantiam ad indicare presunzione e vanto, alla stessa stregua del corrispondente italiano iattanza che è, appunto, la millanteria, l’ostentato vanto di sé. Naturalmente da iacĕre, attraverso il suo iterativo eicere ( ex e iacere) e l’intensivo di quest’ultimo eiectāre, è venuto il nostro gettare, nonché, attraverso il dialetto napoletano, la iettatura ( iettatore è colui che getta il malocchio).
I termini legati a questi verbi latini sono talmente numerosi che è possibile fare solo una carrellata esemplificativa: abiezione (da abicere, ab e iacere), congettura (da coniectare, intensivo di conicere, con e iacere), interiezione (da intericere, inter e iacere), proiezione (da proicere, pro e iacere), reiezione (da reicere, re e iacere), rigetto (da reiectare, intensivo di reicere), soggezione (da subicere, sub e iacere), traiettoria (da traicere, trans e iacere). Per chiudere fermiamoci su gettone e su jet. Sull’origine del primo l’ipotesi più accreditata è che venga dal francese ‘jeton’ dal verbo ‘jeter’ nel suo antico significato di calcolare derivato da un latino parlato *iectare (numeros), gettare i dadi, frequentativo sempre del verbo iacĕre: sembra, infatti, che i jeton, dischetti, venissero gettati sul tavolo per far di conto. Secondo altri verrebbe sempre dal verbo jeter ma nel significato di fondere con riferimento al gettone metallico coniato a mo’ di moneta. Qualunque sia la sua origine è interessante ricordare, come riportato nel DELI (Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, il lessicografo calabrese Costantino Arlìa, il quale a proposito dei ‘gettoni di presenza’ scriveva con bella immagine, alla fine dell’ottocento: “Dicono ‘gettone di presenza’ quell’onorario o rimunerazione che si dà a’ componenti delle commissioni, le quali pullulano come i funghi alle prime acque d’autunno”. Dopo oltre un secolo le cose non sembrano cambiate gran che. E veniamo, infine, al termine inglese jet, che deriva anch’esso dal verbo francese jeter di cui sopra e già nel XVII secolo aveva assunto il significato di ‘getto, spruzzo di vapore’: oggi, come è noto, vale anche come abbreviazione di jet (air)plane ovvero dell’aeroplano a reazione. E se per i vostri incontri mondani siete soliti muovervi con i jet potrebbe significare che appartenete alla ricca aristocrazia del denaro ovvero alla ‘jet society’ o, più semplicemente, al ‘jet set’, la gente bene che non si accontenta più di appartenere soltanto alla ‘café society’ ovvero al bel mondo frequentatore dei locali alla moda.
Della famiglia dei Canidi fanno parte sia il cane (Canis Lupus Familiaris) sia il lupo (Canis Lupus): il cane, infatti, ha il suo progenitore proprio nel lupo, dal quale si è distinto con l’avvento dell’addomesticamento, risalente ad almeno quindicimila anni fa, quando, appunto, ha avuto inizio la trasformazione del lupo nelle tantissime razze canine. La grande varietà di razze dovrebbe dipendere dal fatto che l’addomesticamento e la selezione dei lupi sono stati fatti in ambienti diversi, con differenti condizioni climatiche, e finalizzate ad ottenere cani che assolvessero a compiti utili per l’uomo, dalla guardia alla difesa, dalla caccia al trascinamento di slitte, e, col tempo, alla assistenza a persone ed alla compagnia.
Abbiamo già visto che il lupo, dal latino lupum, che si confronta con il greco lykos, come il cane ringhia ed ulula.
Manzoni, nel capitolo XI de I Promessi Sposi, utilizza la figura del lupo per descrivere il Griso, che Don Rodrigo, dopo averlo ‘svergognato’ lo rispedisce a Monza insieme a due sodali con nuove istruzioni: ...e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata,
leva il muso, odorando il vento infido
se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda ed il terrore della caccia. (Per i curiosi, il verso leva il muso, odorando il vento infido, riferito ad una leonessa, Manzoni lo ha tratto dal poema del suo amico Tommaso Grossi I Lombardi alla prima crociata).
A differenza della lingua latina, la quale usava il termine canem sia per il maschio sia per la femmina, in italiano la femmina del cane è diventata una cagna: il latino canem parturientem, in italiano è una cagna che sta per partorire. Ma, oltre al significato di femmina del cane, cagna ha assunto anche il senso figurato di donna che si dà con facilità agli uomini o di donna con pessime qualità come cantante o come attrice. Per vero quest’ultimo significato traslato s’usa anche per l’uomo, che pure può cantare o recitare come un cane.
Sorte negativa è toccata anche alla femmina del lupo, la quale ha assunto i significati figurati di meretrice, di donna sessualmente avida e simbolo di avarizia e di ingordigia. Così ce la rappresenta Dante (Inferno, I, 49):
Ed una lupa, che di tutte brame
sembrava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fe’ già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza,
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza dell’altezza.
Delle tre fiere che ostacolano il cammino di Dante, facendolo ripiombare in una cupa disperazione, una lonza, un leone ed una lupa, quest’ultima è la più pericolosa, in quanto simbolo di ingordigia di danari, di onori, di beni terreni, dai quali è difficile staccarsi più che da altri impedimenti.
E già per i Latini la lupa era simbolo di voracità, ma soprattutto di donna dedida alla prostituzione. Lo stesso mito fondante della città di Roma, secondo il quale i gemelli Romolo e Remo furono trovati ed allattati da una lupa, sottende il significato di prostituta. I due gemelli, infatti, sarebbero stati allattati da una certa Acca Larenzia, moglie del pastore Faustolo, la quale era detta lupa, in quanto aveva avuto un passato di prostituta.
E lupanarem era il lupanare, il bordello, derivando da lupanam, variante di lupam. E da lupa è venuto il verbo allupare, con il significato traslato di essere affamato, soprattutto, sessualmente: del verbo si usa, in particolare, il participio passato allupato. Anche lupara, il fucile da caccia a canne mozze, ha a che fare con il lupo, ma il sesso non c’entra niente. In origine la lupara era la fossa per catturare i lupi, ma nella seconda metà del XX secolo ha assunto il significato di cartuccia caricata a pallettoni e, quindi, il significato attuale, in quanto usata per uccidere i lupi. Le canne mozze e la modifica del calcio, riducendo la lunghezza dell’arma, ne consentono un miglior utilizzo sia nel trasporto sia muovendosi nella vegetazione.







