Dall’alba chiara, finché il giorno muore
Un viaggio poetico attraverso il tempo: dal chiaro mattino all'intensa notte, tra amore, storia e natura
Nel CD “FLEURS” del 1999 Franco Battiato ha riproposto una bella canzone “La chanson des vieux amants” di Jacques Brel (l’autore di “Ne me quite pas”) di cui canta questi versi appassionati:
Mon amour
Mon doux, mon tendre, mon merveilleux
Amour
De l’aube claire jusqu’à la fin du jour
Je t’aime encore, tu sais, je t’aime
che nella versione italiana suonano
Mio amore mio dolce meraviglioso amore
d’alba chiara finché il giorno muore
ti amo ancora sai ti amo.
Un amore grande, senza pause nello scenario del tempo, dove i giorni nascono, muoiono e tronano a nascere sotto la sapiente regia del Sole ( in latino solem, voce d’origine indoeuropea), il quale dirige i personaggi che man mano si presentano sulla scena: l’alba, l’aurora, la mattina, il meriggio, il pomeriggio, il vespro, il tramonto, la sera e la notte.
La rappresentazione si svolge nell’arco di 24 ore, ovvero della durata del…
Giorno
É il periodo compreso tra due successivi passaggi del sole sullo stesso meridiano terrestre (giorno solare) oppure tra una mezzanotte e quella successiva (giorno civile).
Come è noto, la durata del giorno solare è legata al tempo che la Terra impiega ad effettuare una completa rotazione e si può, quindi, considerare l’unità base per la misurazione del tempo non modificabile arbitrariamente.
Diverso il discorso per le sequenze di giorni: settimana, mese, anno, secolo, millennio, le quali sono il frutto dell’elaborazione delle varie civiltà umane.
Della settimana possiamo dire che il termine viene dal latino septem, sette, da cui l’ordinale septimum, settimo, da cui septimanum, settimo di una serie, dal cui femminile sostantivato, nel tardo latino, abbiamo avuto septimanam, la nostra settimana.
Dal momento che il mese lunare (periodo compreso tra due lune nuove) dura circa 29 giorni e 12 ore, possiamo anche dire che la settimana è ampia, in via approssimativa, quanto ciascuna delle fasi lunari: ogni fase (dal greco phasis, apparizione di un astro) rappresenta il periodo in cui la Luna (latino lunam da radice indoeuropea leuk- dal significato di luce) assume un particolare aspetto a seconda della sua posizione rispetto alla Terra:
Luna Nuova: la Luna si trova tra la Terra ed il Sole e, quindi l’emisfero rivolto verso la Terra non è illuminato. La Luna sorge al mattino e tramonta la sera.
Primo Quarto.
Ultimo Quarto.
Luna Piena: la Luna si trova in posizione opposta al Sole rispetto alla Terra e, quindi, il suo emisfero rivolto verso la Terra è completamente illuminato. La Luna sorge la sera e tramonta al mattino.
Primo e Ultimo quarto sono le fasi corrispondenti alle quadrature della Luna con il Sole, nelle quali le semirette congiungenti la Terra con la Luna e con il Sole formano un angolo di 90° e metà emisfero della luna appare illuminato rispettivamente verso il 7° e il 22° giorno dall’inizio della Luna Nuova. Al primo quarto sorge a mezzogiorno e tramonta a mezzanotte. All’ultimo quarto sorge a mezzanotte e tramonta a mezzogiorno.
L’allineamento della Luna con il Sole e con la Terra viene chiamato sizigia dal tardo latino syzygiam a sua volta dal greco syzygia ovvero accoppiamento, derivante dall’aggettivo syzygos, appaiato con riferimento ai buoi accoppiati al medesimo giogo, detto in greco zygon.
Tornando alla settimana è noto, altresì, che il sette (dal latino septem d’origine indoeuropea) è un numero con ascendenze sia sacrali sia profane. Basti pensare ai sei giorni della creazione che culminano con il settimo dedicato al riposo. Sette sono le virtù, i vizi, i doni dello spirito santo, i sacramenti e le misericordie corporali e quelle materiali, ma sette sono anche i saggi greci, i re di Roma ed i colli, le mura di Tebe, le meraviglie e sette sono le note musicali e le stelle dell’Orsa.
La settimana nasce, probabilmente, con i Caldei, popolo semita abitante nella parte meridionale della Mesopotamia, i quali, basandosi su una lettura astrologica, associavano ogni ora del giorno ad uno dei pianeti conosciuti, secondo l’ordine delle distanze decrescenti dalla Terra: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio, Luna.
L’arco diurno che andava dall’alba al tramonto e quello dal tramonto all’alba erano divisi ognuno in 12 ore. A ciascuna ora gli astrologi associavano un pianeta che ne determinava la qualità: ora adatta alla preghiera, agli affari, ai viaggi, ai sentimenti, e così via, secondo uno schema che si ripeteva all’infinito. In particolare, il pianeta che quotidianamente governava la prima ora, quella che partiva dall’alba, era considerato pianeta dominante e dava il nome al giorno appena iniziato.
Arrivando, per brevità, ai nomi assunti dai giorni intorno al II secolo e.v., abbiamo: dies Saturni, Sabato, dies Solis, Domenica, dies Lunae, Lunedì, dies Martis, Martedì, dies Mercurii, Mercoledì, dies Iovis, Giovedì, dies Veneris, Venerdì.
Per influenza della Bibbia e del cristianesimo, il dies Saturni diventa sabbatum, dal greco sabbaton, a sua volta dall’ebraico sabbath, riposo. Nel calendario cristiano, poiché nei Vangeli la Resurrezione di Gesù avviene nel giorno successivo al sabato, il dies Solis fu sostituito dal dies Domini, il giorno del Signore, detto nel tardo latino (diem) domenicam, al femminile, in quanto in latino diem, al singolare, poteva essere sia maschile sia femminile, da cui la nostra Domenica. Dove la diffusione del cristianesimo è avvenuta più tardi, il dies Solis si è conservato, come Sonntag in tedesco e Sunday in inglese, che con Saturday ha conservato anche il dies Saturni.
Tornando alla durata del giorno, va precisato che è variabile, in quanto, percorrendo la Terra un’orbita ellittica, il sole appare avere una diversa velocità nel corso dell’anno, tanto che nei giorni intorno al 24 dicembre la durata del giorno è di 24 ore e 30 secondi circa. Torna, invece, la durata di 24 ore se si tiene conto della media delle velocità del sole durante l’intero anno.
Varia , altresì, la durata del periodo di luce, che dipende dalle stagioni e risulta di 12 ore diurne e 12 ore notturne soltanto agli equinozi, ovvero nei momenti in cui il sole si trova esattamente sull’equatore, in primavera il 21 marzo e in autunno il 23 settembre. È questo il significato etimologico di equinozio, dal latino aequinoctium, da aequum, uguale, e noctem, notte, ripreso (calco) dal greco isonyktion, da isos , uguale, e nyx, nyktos, notte.
C’è, quindi, una nozione comune del giorno, che, in contrapposizione alla notte, indica il periodo di luce dal sorgere del sole al tramonto. Questo è il significato che si ricava dall’etimo latino diurnum tempus, ovvero tempo della luce: in latino diurnum, usato in contrapposizione a nocturnum, deriva dal sostantivo diem, che ha generato anche il nostro dì e che oltre a giorno/giornata indicava, altresì,la luce del giorno o del sole. E da diurnum abbiamo avuto giorno e da questo giornale, riferito al latino volgare *diurnalis, giornaliero: si è partiti da un “foglio giornale”, ovvero foglio del giorno, che è poi diventato semplicemente il giornale che leggiamo tutti i giorni. Ma il latino aveva anche un quotidie, ogni giorno, in quanto composto da quot, quanti, ogni e da diem; e da quotidie viene quotidiano, giornaliero, di ogni giorno, e noi ci siamo presi anche questo, con gli stessi significati, facendo altresì del quotidiano un sinonimo di giornale.
Brevemente sulle altre sequenze di giorni. Mese viene dal latino mensem da una radice indoeuropea *me- ‘misura’, che in origine indicava sia “mese” sia “luna”. D’altronde, il primo calendario lunare consentì il conteggio dei giorni e la misurazione del tempo proprio in base al moto apparente della luna. In greco antico mén è il mese e méne è la luna. In latino, invece, il termine mensem si specializza ed assume esclusivamente il significato di mese. Anno, il periodo del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole, viene dal latino annum, da una base indoeuropea *atno-.
Secolo viene dal latino saeculum, che valeva sia ‘generazione’ sia ‘durata di una generazione’, circa 33 anni, definibile come secolo naturale, accanto al quale fu introdotto il secolo civile di 100 anni.
Ma torniamo al nostro amante, quando finisce la notte, forse insonne, ed il giorno non spunta ancora. É l’Alba…
Alba
l'ora, tra la fine della notte e l'aurora , in cui ad oriente il cielo inizia a biancheggiare, come indica chiaramente la sua origine latina lucem albam che significa appunto luce bianca. Lo stesso aggettivo album, bianco, ha generato anche il nostro albo, lo spazio per avvisi e documenti ufficiali, in quanto con album i Romani indicavano una tavoletta imbiancata, su cui trascrivevano, appunto, editti ed atti ufficiali.
Più contorto il cammino di quello che noi ancora oggi chiamiamo album ad indicare una raccolta di foto, francobolli, dischi, il quale ci viene dall’utilizzo in tal senso fattone in Francia, ripreso dall'espressione latina usata in Germania album amicorum, ovvero il (libro) bianco (delle scritte) degli amici.
Ma, mentre parlavamo di editti e raccolte varie il chiarore dell'atmosfera terrestre è già aumentato. Ecco che incalza l’Aurora…
Aurora
in latino auroram, in greco eós – e quello che era un chiarore, in attesa del sorgere del sole, tende a cambiare in arancione e poi in giallo. Ma i colori possono variare. Omero, ad esempio, l’Aurora la chiama rhododaktylos eos, ovvero aurora dalle rosee dita, da rhodon, rosa e daktylos,dito: da quest’ultimo la nostra dattilografia.
Nei periodi di maggiore attività solare aumenta il numero di particelle cariche (protoni ed elettroni) lanciate dal sole nello spazio. Quando raggiungono il nostro pianeta, le particelle vengono deflesse dal campo magnetico terrestre verso i poli, intorno ai quali si addensano. Al loro passaggio negli strati più alti dell’atmosfera, esse eccitano i gas (ossigeno ed ozono) e generano un aspetto multicolore dell’aurora, rosso verso l’estremo inferiore e verde verso quello superiore. Il fenomeno, chiamato aurore polari, si manifesta nelle zone di latitudine elevata di circa 65°-75°Nord (aurora boreale) e Sud ( aurora australe) sotto forma di grosse chiazze, archi e drappeggi. Ed è ormai Mattina…
Mattina
ovvero l'ora mattutina, in latino horam matutinam da Mater Matuta, dea italica della luce mattutina. La mattina non ha più il tocco lieve e poetico dei personaggi appena usciti di scena, ma è più corposa e va avanti fino al mezzogiorno, che, ora legale a parte, è il momento in cui il sole è più alto nel cielo. I Latini lo chiamavano meridium (da medium, mezzo e diem, giorno), il quale ci ha regalato il Meriggio le calde ore intorno al mezzogiorno, e lo stupendo meriggiare, riposare all’aperto, in zona d’ombra, nelle ore del meriggio. Già i Romani amavano molto meridiare, far la siesta, e Catullo, in uno di quei carmi (XXXII) che non si trovano nelle antologie scolastiche, si rivolge a Ipsitilla con parole ardenti:
Amabo, mea dulcis Ipsitilla, Meae deliciae, mei lepores, Iube ad te veniam meridiatum. Ti amerò, mia dolce Ipsitilla, Mia delizia, miei incanti, Ordina che venga da te a meriggiare.
Un modo un po’ bizzarro di fare la siesta, che viene dallo spagnolo siesta, (ora) sesta, dal latino sextam (horam), ora sesta, mezzogiorno, come vedremo parlando delle ore canoniche. Infatti, per noi la siesta è un breve riposo dopo il pasto di mezzogiorno, mentre Catullo alle parole ardenti vorrebbe far seguire fatti ancora più focosi, sui quali sono costretto a glissare. Sono i Francesi che ci hanno insegnato a glissare con il loro glisser, scivolare, slittare, che può essere lo scivolare su una buccia di banana, glisser sur une peau de banane, ma anche un glissons!, sorvoliamo, su un argomento scabroso.
Chi, nonostante tutto, volesse continuare la lettura del carme, può leggere il testo riportato tra parentesi quadra:
[Et si iusseris, illud adiuvato, Ne quis liminis obseret tabellam, Neu tibi lubeat foras abire, Sed domi maneas paresque nobis Novem continuas fututiones. Verum si quid ages, statim iubeto: Nam pransus iaceo et satur supinus Pertundo tunicanque palliumque. E se approverai, agevola la cosa, Nessuno chiuda il chiavistello della porta, E non farti venir voglia di andare fuori, Ma resta in casa e prepara per noi Nove scopate ininterrotte. Invero, se lo farai, provvedi subito: Infatti giaccio dopo pranzo e sazio a Pancia all’aria perforo e la tunica e il mantello.]
Del tutto casti, invece, i famosissimi versi, presenti in tutte le antologie scolastiche, del nostro grande Montale: da Ossi di seppia
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o sulla veccia spiar le file di rosse formiche ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com’è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Il tempo di leggere la poesia e sulla scena già si è introdotto il Pomeriggio
Pomeriggio
da post meridiem, dopo il mezzogiorno. E da meridiem abbiamo avuto anche il nostro meridionale, posto a mezzogiorno, attraverso il tardo latino meridionalem, costruito alla stregua di septentrionalem, da septentrionem, il nord, formato da Septem Triones, ovvero i sette buoi della costellazione dell’Orsa. Entrambe le Orse, Maggiore e Minore, Virgilio le chiama Geminos Triones.
Trionem era il bue da lavoro, cosiddetto forse perché ai lavori pesanti venivano adibiti buoi di tre anni. Ma seguiamo il cammino discendente del sole, che ci conduce dolcemente al Vespro…
Vespro
che è il tardo pomeriggio, quando si va verso il tramonto del sole. Con hespéra i Greci e con vesper i Romani indicavano la sera ed, altresì, la regione della sera ovvero l’occidente, dove tramonta ilsole. Hesperia per i Greci era l’Italia, mentre per i Romani era la Spagna, in quanto rispettivamente per i primi e per i secondi l’una e l’altra si trovavano ad occidente. Hésperos astér dei Greci è la stella della sera, in latino Hesperus, in italiano Espero, nome che assume il pianeta Venere quando è visibile di sera, al tramonto del sole. Il vespro è un momento molto particolare della giornata, di raccoglimento non solo religioso ma anche familiare, essendo l’ora in cui, cessato il lavoro, la famiglia, almeno nelle società contadine, si riuniva a casa.
E nella liturgia cattolica il vespro è una delle ore canoniche, ovvero delle otto parti in cui è diviso l’Ufficio divino: mattutino (prime ore del mattino: 24-3), lodi (canto del gallo: 3-6), prima (intorno al sorgere del sole: 6-8), terza (9-11), sesta ( intorno a mezzogiorno: 11–14), nona (15-18), vespro (intorno al tramonto del sole: 17-18) e compieta (dopo le 19), dal latino medievale (horam) completam, ora che chiude la giornata: dall’alba a compieta ha lo stesso significato di dall’alba al tramonto. Ed al vespro ha luogo la relativa funzione per ringraziare Dio per i benefici ricevuti o per le buone azioni compiute durante il giorno.
Quel soldato francese che, all’ora del vespro del 30 marzo del 1282, a Palermo, nella piazza di S. Spirito usò villania ad una donna siciliana, tra tutti i momenti sbagliati per simili azioni, scelse decisamente il peggiore. Fu questa l’occasione dello scoppio del moto popolare che va sotto il nome di Vespri Siciliani o Vespro Siciliano, il quale dilagò per tutta l’isola contro la dominazione angioina.
In realtà, le origini dell’insurrezione del 30 (o forse 31) marzo furono varie, tra cui la forte pressione fiscale degli Angioini, il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, l’assegnazione di ampi territori siciliani a feudatari francesi. La corona fu offerta a Pietro III d’Aragona, il quale, con l’appoggio di Genova, Venezia e dell’imperatore bizantino Paleologo, sbarcò a Trapani nell’agosto del 1282, dando inizio alla Guerra del Vespro contro Carlo d’Angiò, sostenuto, a sua volta, da Papa Martino IV e Filippo II di Francia. Il conflitto si chiuse nell’agosto del 1302 con la pace di Caltabellotta, che assegnò la Sicilia, vita natural durante, a Federico II d’Aragona con il titolo di Re di Trinacria, che fu da lui mutato in Re di Sicilia, quando, nel 1314, il conflitto con gli Angioini si riaccese. Ulteriori continue guerre seguirono per il fatto che non fu eseguita l’importante clausola del trattato di pace, in base alla quale, alla morte di Federico II, l’isola sarebbe dovuta tornare agli Angioini.
Trinacria è l’antico nome greco della Sicilia, derivato dalle tre punte, treis akrai, che danno forma triangolare all’isola.
Questa parte del giorno ha ispirato molti poeti e pittori in particolare nella rappresentazione del Tramonto…
Tramonto
il momento in cui il sole scompare oltre la linea dell’orizzonte. Tramontare viene da monte con il prefisso tra, ovvero oltrepassare, per cui significa calare al di là dei monti e vale, naturalmente, anche per i poetici tramonti sul mare, quando il cielo ad occidente assume un colore rossastro e ad oriente sfuma in un azzurro cupo:
Era già l’ora che volge il desìo ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more;
Dante, Purgatorio, canto VIII, 1-6
E leopardi, Il Passero solitario, 41-44
Mi fere il Sol , che tra lontani monti, dopo il giorno sereno, cadendo si dilegua, e par che dica che la beata gioventù vien meno.
L’orizzonte è la linea leggermente curva che delimita la visibilità della terra da un punto di osservazione, là dove cielo e terra per l’osservatore sembrano congiungersi.
Siamo ormai all’imbrunire ( “E il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” Franco Battiato, La Prospettiva Nevski), ovvero è calata la Sera…
Sera
che, sebbene nell’uso comune la si faccia spesso iniziare dalle prime ore del pomeriggio, tanto che in alcune regioni si saluta con buonasera dopo il mezzogiorno, in realtà indica esattamente il periodo che va dal tramonto all’inizio della notte, cioè la tarda parte del giorno, come d’altronde si ricava dall’etimo latino sera dies, ora tarda del giorno dall’aggettivo serus, tardo/tardivo, da cui anche noi abbiamo tratto l’aggettivo serotino, come il frutto che fiorisce tardi.
Anche la sera ha ispirato molti poeti, basti pensare a Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio. Di quest’ultimo possiamo ricordare alcuni versi de La Sera Fiesolana:
Fresche le mie parole nella sera Ti sien come il fruscio che fan le foglie Del gelso ne la man di chi le coglie .......... Laudata sii pel tuo viso di perla, O Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace L’acqua del cielo ! Dolci le mie parole ne la sera Ti sien come la pioggia che bruniva Trepida e fuggitiva, Commiato lacrimoso de la primavera Sui gelsi e su gli olmi e su le viti E sui pini dai novelli rosei diti Che giocano con l’aura che si perde E su ‘l grano che non è biondo ancora E non è verde
Sarebbe da continuare, ma, tra le quinte, è rimasto un personaggio secondario, un po’ triste e malinconico, ma in grado di interpretare più ruoli. E’ il crepuscolo, noto, per lo più, come il periodo tra il tramonto del sole ed il calare della notte - ma questo periodo, come abbiamo visto, è la sera ! – ed usato come sinonimo del tramonto stesso o, in senso traslato, ad indicare il declino, il venir meno o l’esaurirsi di qualcosa. In verità il personaggio è un po’ più complesso, in quanto indica il chiarore diffuso ed indistinto del cielo che si osserva prima della levata (crepuscolo del mattino) e dopo il tramonto (crepuscolo della sera) del sole, ovvero quando questo rispettivamente non è ancora o non è più all’orizzonte. Pertanto, se al tramonto il crepuscolo tende a confondersi con la sera, prima del sorgere del sole tende a confondersi con l’aurora.
Il chiarore del crepuscolo deriva dalla luce diffusa dalle particelle degli strati più alti dell’atmosfera e la sua durata aumenta con la latitudine: così, all’equatore è praticamente inesistente e si passa rapidamente dal giorno alla notte e viceversa, mentre nelle regioni polari, dove non c’è alternanza tra notte e dì, la luce crepuscolare si avverte per parecchi giorni prima del sorgere del sole e dopo la sua scomparsa dall’orizzonte; alle nostre latitudini la sua durata è di circa due ore. Crepusculum lo chiamavano i Latini da un aggettivo *crepus, confrontabile creper, oscuro.
Con riferimento al significato figurato di fase declinante che precede la fine di qualcosa, si può ricordare che il critico G.A. Borghese, in un articolo su “La Stampa” del 1 settembre 1910, introdusse l’espressione ‘poetica crepuscolare’ con riferimento ai poeti M. Moretti, F.M. Marinetti e C. Chiavez, ad indicare il crepuscolo (lo spegnersi) di una grande stagione poetica, quella della poesia classica e romantica. Senza voler accomunare sotto un’unica etichetta poeti quali, oltre ai già citati, G. Gozzano, S. Corazzimi e C. Covoni, in via generale i crepuscolari, pur nella loro diversità, rappresentano il rifiuto della retorica dannunziana e dei toni aulici ed etici carducciani e la predilezione, al contrario, per tematiche che attingevano agli aspetti più miti e meno appariscenti della realtà, da loro rappresentata, con ostentata malinconia, nel suo grigiore quotidiano (la noia degli ambienti della provincia, le suore tristi, i giardini abbandonati e silenziosi).
Ma è ormai tempo di lasciare entrare in scena, in tutta la sua imponenza, il già preannunciato ultimo personaggio, la Notte…
Notte
la quale tende ad allargarsi e ad assorbire anche la sera, estendendosi per tutto il periodo che va dal tramonto al sorgere del sole. Se lo si usa in opposizione a giorno, il termine notte indica il periodo in cui un luogo non è rischiarato dalla luce del sole. Il suo antenato prossimo è il latino noctem (nox, noctis da confrontare con il greco nycs, nyctos), che si rifà ad una antichissima forma elementare “negh”.
La notte, la cui durata varia secondo la latitudine e la stagione, la farà da padrona fino a quando prima l’alba e poi l’aurora, coadiuvate dal crepuscolo del mattino, verranno ad annunciare di nuovo il sorgere del sole e, sullo scenario del tempo, la rappresentazione di un’altra giornata.
A questo punto possiamo augurarci buonanotte ed augurarla, in particolare, al nostro appassionato amante, il quale, pur con un po’ di saggezza acquisita con gli anni, ha continuato, anche da vecchio amante, a sfuggire le insidie della monotonia e, soprattutto, ad amare il suo dolce meraviglioso amore dall’alba chiara finché il giorno muore. E, d’altronde, come altro si può veramente amare?
E’ sicuramente questa un’ottima occasione, vista l’ora, per rileggere insieme i famosi versi del carme V del veronese Gaio Valerio Catullo (84-54 a.C.), il quale, nonostante la giovane età, di pene d’amore se ne intendeva, per aver avuto nella sua breve vita un unico vero amore per la bellissima Clodia ( la Lesbia cantata nei carmi), un amore vissuto con forte esuberanza, fatto di rotture ericonciliazioni, di gioie e amarezze, di improperi e parole dolcissime, ma, comunque, un amore totale, che resistette a tutto anche ai vani tentativi che Catullo fece per dimenticare Clodia:
Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,
ed i brontolii dei vecchi troppo severi
tutti stimiamoli un solo soldo.
I soli possono tramontare e ritornare:
noi quando è tramontata la breve luce (della vita)
dobbiamo dormire una sola eterna notte.
Dammi mille baci, poi cento
Poi altri mille, poi un secondo centinaio,
quindi ancora altri mille, poi cento.
Quindi, quando ne avremo fatti molte migliaia, li rimescoleremo per non sapere (il numero)
O perché qualche malevolo non possa invidiarci, quando sappia esserci sì gran numero di baci.
Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt;
Nobis cum semel occidit brevis lux,
Nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum ,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa facerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.