Fegato e Cuore
Un viaggio etimologico tra cuore e fegato: le passioni degli antichi e l'evoluzione linguistica dal latino all'italiano
Dizionario della lingua latina Georges-Calonghi edizione Rosemberg & Sellier del 1957. Alla voce iecur, fegato in latino, si legge: "secondo la credenza degli antichi, sede dei sentimenti e delle passioni, particolarmente dell'amore sensuale e dell'ira", in altre parole quello che per noi è il cuore. Il poeta Orazio, nell’epistola XVIII del libro I, indirizzata ad un certo Massimo Lollio, il quale si era messo sotto la protezione di un ‘Amico potente’, tra i tanti dà anche questo consiglio: in casa dell’Amico “Non ancilla tuum iecur ulceret ulla puerve” che letteralmente si può tradurre “alcuna ancella o fanciullo piaghi (ferisca) il tuo fegato” oppure “ti roda il fegato”, ma che noi diremmo “ferisca o conquisti il tuo cuore”. D’altronde anche i Greci, che chiamavano il fegato hépar, hepatós, lo vedevano come sede delle passioni, per cui si capisce perché ancora oggi si dice avere fegato nel senso di avere coraggio ( o non aver paura ).
Ma perché, se i Romani lo chiamavano iecur , noi invece lo chiamiamo fegato? C’è una satira di Orazio, l’ottava ed ultima del secondo libro, nella quale il poeta si fa raccontare, da uno dei partecipanti, la cena organizzata da Nasidieno Rufo, un volgare arricchito che vuole apparire un raffinato signore, ma in realtà finisce per ammorbare i commensali illustrando tronfiamente tutte le vivande che vengono servite, tra le quali arriva “pinguibus et ficis pastum iecur anseris albae”, ovvero “fegato di oca bianca ingrassata con succosi fichi”. Ecco che il mistero comincia sfittirsi. Invero si tratta di una storia che inizia in cucina ai tempi dei Greci e poi tramandata ai Romani. I nostri antenati, infatti, usavano ingrassare alcuni animali, in particolare le oche (qualche buongustaio avrà già l'acquolina in bocca, pensando al fegato d'oca o, magari, a un patè de foie gras) nutrendoli con grosse quantità di fichi, cosicché non solo facevano ingrossarne il fegato (iecur) ma davano altresì a quest'ultimo un gusto del tutto particolare. E così il fegato degli animali ingrassato con i fichi fu detto dai Romani iecur ficatum, ricalcando il greco hêpar sycotón da sÿkon, ovvero fico (latino ficum): ma mentre iecur si perse per strada, ficatum lasciò le tavole imbandite e finì per indicare quello che oggi noi chiamiamo fegato, ovverosia la grossa ghiandola dell'apparato digerente comune a tutti i vertebrati, uomo compreso: e questi non solo continua a mangiare il fegato d'oca ma spesso si mangia anche il proprio o quantomeno se lo rode, quando si tormenta per la rabbia.
Se, come abbiamo visto iecur s’è perso per strada, il greco hêpar, hepatós , invece, ha generato un tardo latino hepar, hepatis, che indicava esclusivamente il fegato come ghiandola ed un derivato neutro plurale epatia, ovvero quelli che noi chiamiamo fegatini (cotti). E dal progenitore hêpar in italiano abbiamo tratto epatico, epatite e termini analoghi. Ed anche epa, ovvero pancia, ventre, in quanto sede del fegato (e non solo).
Quanto al riccone Nasidieno Rufo, i commensali si vendicano di lui e del suo grossolano modo di fare, fuggendo dalla cena senza aver assaggiato niente di niente.
Ed il cuore?
I Latini lo chiamavano cor, cordis, termine che, in italiano, oltre a cuore, ci ha dato, cordiale, ad indicare, come aggettivo, un sentimento sincero o una persona gentile, e, come sostantivo, un liquore corroborante e un brodo particolarmente sostanzioso. Ma da cuore viene anche ricordare dal verbo recordari ( da re e cordem ), che valeva richiamare al cuore, all’animo, al pensiero e fa pensare all’imparare a memoria dei francesi (apprendre par coeur) e degli inglesi (to learn by heart). I Latini ritenevano il cuore sede della memoria affettiva, così come i Greci, che lo chiamavano kardía, lo ritenevano sede delle passioni e dell’intelligenza. E dall’aggettivo greco kardiakós (del cuore), attraverso il latino cardiacum, il cui significato concerneva soprattutto i disturbi gastrici e poi quelli del cuore, viene il nostro cardiaco, che torna a significare soltanto ciò che riguarda il cuore. Ma cardias (o cardia), sempre dal greco Kardia, torna ad avere a che fare con lo stomaco, indicando l’orifizio superiore dello stomaco, dove sbocca l’esofago.
Usando cardi- e -cardi come primo e secondo elemento in unione con altre parole greche, sono stati formati numerosi termini medici: da cardiologia (con –logia da logos, discorso), la scienza che studia il cuore, a cardiopalma (con palmós, palpito, vibrazione), la palpitazione del cuore a causa di malattia o di emotività, da tachicardia (con tachýs, veloce), anomalo aumento dei battiti del cuore, a cardiopatia (con páthos, sofferenza, patimento), malattia del cuore. Páthos indicava anche affetto, passione, stato dell’animo agitato, da cui il nostro patos o pathos, ovvero l’intensa emozione suscitata da un’opera d’arte, o, comunque, una intensa partecipazione emotiva; e dal derivato greco páthema, sofferenza, il nostro patema, che è appunto una sofferenza angosciosa, e da patheticós, sensibile, recettivo, tramite il tardo latino patheticum, il nostro patetico, che suscita compassione o commozione.
Tornando al latino è dal termine cordolium, dispiacere, dolore, composto da cor cordis e da dolere, sentire dolore, che deriva il nostro cordoglio, ovvero il profondo dolore provocato da un lutto o da una sciagura.