Nella lingua latina troviamo l’aggettivo intimus (dalla preposizione in, dentro, col suffisso – timus), il quale veniva usato come superlativo di interior. Così interior indicava ‘ciò che sta dentro’ e poteva essere la ‘parte interna’ della casa o di altro luogo oppure ‘ciò che è più intrinseco’ come l’amicizia. A sua volta, intimus, in quanto superlativo, indicava ‘il più interno’, come, rimanendo agli esempi appena fatti, ‘la parte più interna’ di un luogo ovvero ‘ciò che è più profondo o segreto’ (intima philosophia , il cuore della filosofia , intima consilia , i progetti più segreti) o ‘ciò che è strettamente unito’, quel che noi chiamiamo, appunto, ‘intimo’, quale una amicizia strettissima.
Intimus viene ripreso, nella nostra lingua, nel senso di ciò che è più interno già nel secolo XIII. Lo usa, ad esempio, Dante nel canto XII del Paradiso (versi 19-21):
“così di quelle sempiterne rose
volgìensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispose.”
Brevemente: nei canti XII e XIII del Paradiso Dante descrive le due corone (ghirlande) degli spiriti sapienti (beati), dalle quali si levano due voci: nel canto XII quella del domenicano san Tommaso, il quale tesse l’elogio di San Francesco e nel canto XIII quella del francescano san Bonaventura da Bagnoregio, il quale a sua volta svolge il panegirico di San Domenico. E Dante, dopo aver descritto un’ampia similitudine delle due ghirlande con i due cerchi dell’arcobaleno, i quali si volgono “paralleli e concolori”, aggiunge, come abbiamo visto: così si volgevano intorno a noi le due ghirlande (formate dai beati) intessute di rose sempiterne (che non appassiscono come i fiori terreni) e così quella estrema, esterna, rispose (nel canto) a quella intima, interna.
Dunque, intimus in latino era superlativo, e il nostro intimo ? Anche in italiano intimo è un superlativo ed ha il suo comparativo nell’aggettivo interiore, mentre manca del grado positivo: il fatto è che intimo ed interiore hanno, per così dire, sofferto di una attenuazione del loro valore di superlativo e di comparativo ed intimo è stato usato anche sia nella forma comparativa più intimo sia nella forma superlativa relativa il più intimo, fino alla forma superlativa assoluta intimissimo. Così, già il Boccaccio, intorno al 1336, nel suo romanzo Il Filocolo, dove narra la ‘fatica d’amore’ del protagonista, costretto dal sentimento a correre mille avventure, definisce uno dei personaggi “amico intimissimo”.
E intimo ha proseguito il cammino, con le sue numerose accezioni, fino al giorno d’oggi. Lungo la strada ha generato intimare, già presente nel tardo latino con il significato originario di far entrare, penetrare e, successivamente ‘far entrare nella mente’ e, quindi, far conoscere, comunicare, notificare. E poiché spesso era un’autorità a far entrare nella mente un editto o un ordine, intimare assunse anche il significato, oggi prevalente, di ordinare, imporre..
Molto più tardi, invece, ha fatto la sua comparsa, derivando sempre dall’aggettivo intimo, il sostantivo intimità, il quale, peraltro, non ha riscontro nella lingua latina. La scrittrice francese Marie de Robutin-Chantal de Sévignè (1626-1696), autrice, sembra, di oltre mille lettere, molte delle quali rivolte a sua figlia, usa il termine ‘intimité’ nel 1684, mentre in Italia ‘intimità’ compare all’inizio del XIX secolo: così Leopardi nello Zibaldone (Dic. 1818-Gen.1820) parla di “intimità e durevolezza del sentimento” e nel racconto, di cui non è noto l’autore, ‘I due amanti ciechi’, pubblicato sul n. 58 (Domenica 21 marzo 1819) del Conciliatore, rivista letteraria edita a Milano dal 9/1818 al 10/1819, soppressa dalla censura Austriaca, leggiamo, con riferimento ai due protagonisti del racconto: “La loro dolce intimità non aveva esempio; Giulio e Amalia si amavano per esistere, come ami l’aria che respiri, come ami la sorgente che incontri in mezzo al deserto”.
Oggi intimità, oltre ad indicare la caratteristica di ciò che è intimo come l’intimità di un’amicizia, significa anche un luogo o ambiente intimo: reale (l’intimità della casa) o figurato (l’intimità dello spirito). Intimità indica altresì i rapporti ed i sentimenti che si vogliono nascondere all’altrui curiosità. Se ne fa, infine un uso eufemistico, per indicare un rapporto amoroso, specialmente sessuale, e per indicare, sostituendo i termini giudicati più aspri che le designano, le parti intime del corpo ovvero i genitali esterni, detti anche pudende. Volendo fare i pignoli, trattandosi di organi genitali esterni intimità o, come anche si dice, parti intime non vengono usati nel significato etimologico dei termini (interne), ma nel senso figurato che attengono alla sfera riservata della persona. Con riferimento a questi ultimi significati si trovano spesso citati due esempi: da una novella di Federico Tozzi (“I due sposi ebbero intimità come prima non avevano avute mai”) e da una novella di Aldo Palazzeschi (“Bella e soave non si accorsero mai delle vostre intimità quando andavate a nascondervi dietro le piante?”).
Le putende o putenda, termine usato spesso scherzosamente, vengono dal latino pudenda, le parti vergognose, gerundio neutro plurale del verbo pudere, vergognarsi, da pudor, il pudore. I tabù linguistici e la conseguente interdizione dall’uso, soprattutto in passato, dei termini che indicano gli organi sessuali hanno portato alla continua ricerca di termini sostitutivi o di perifrasi (giri di parole) considerati meno crudi. Nora Galli de’ Pratesi nella sua ricerca ‘LE BRUTTE PAROLE’ – Semantica dell’eufemismo (Oscar Mondadori, 1969) sottolinea come tra i nomi designanti gli organi sessuali anche “quelli di tono scientifico o dotto vengono usati quando proprio non se ne può fare a meno”, e ricorda in proposito: “organo femminile che è un procedimento per antonomasia, natura femminile, astratto per il concreto, pudendum muliebre, parola dotta d’uso scientifico, tratta dalla terminologia medica secentesca. Si dice anche pudenda o pudende o, traducendo letteralmente, sconcio della donna”. (sic!)
Sconcio, aggettivo e sostantivo, viene dal verbo sconciare (guastare, deturpare) a sua volta da conciare, derivante dal latino volgare comptiare tratto da comptus (unione ma anche acconciatura) dal verbo comere (ordinare, disporre, ornare). In italiano conciare, oltre a significare ‘sottoporre a concia’ ovvero, ad esempio, sottoporre al processo di trasformazione della pelle in cuoio, o anche preparare le foglie del tabacco per farne sigari, ha assunto significati prevalentemente negativi quali maltrattare, ridurre in cattivo stato, tipo ‘conciare qualcuno per le feste’.
Se conciare con s- negativo-sottrattivo ha generato sconciare di cui sopra, con a(d)- aggiuntivo ha dato vita ad acconciare, con il quale torniamo ai significati positivi di accomodare, abbigliare e simili.





