Aulo Cecina Aliano, appartenente a nobile famiglia di origine etrusca, persona di alta statura e di bella presenza, con ottime capacità oratorie e forte ascendente sui suoi soldati, era molto ambizioso e pronto ad utilizzare ogni mezzo pur di raggiungere i suoi scopi. Era stato l’imperatore Galba a nominarlo comandante di una legione, posizione ideale, per persone di pochi scrupoli, per fare i propri interessi. Finché fu sorpreso a sottrarre soldi pubblici, per cui, al fine di evitare di essere processato, si schierò con l’aspirante imperatore Vitellio. Correva l’anno 69, il famoso anno dei quattro imperatori: Galba, successore di Nerone, in carica dal giugno del 68, Otone, entrato in carica a gennaio del 69, Vitellio, nominato imperatore ad aprile ed, infine, Vespasiano, nominato a dicembre, il quale interruppe questi continui avvicendamenti rimanendo in carica per dieci anni. Fu proprio grazie all’appoggio di Cecina e di Fabio Valente, altro comandante di legione, che Vitellio riuscì a diventare l’ottavo imperatore romano, anche se per il breve periodo dall’aprile al dicembre del 69.
Perché parlare di Aulo Cecina Aliano, che, anche in seguito, si distinse per la sua facilità al tradimento, fino a che nel 79, avendo congiurato contro l’imperatore Vespasiano, fu ucciso per ordine di Tito, figlio e successore di Vespasiano stesso?
Perché Cecina fu molto criticato anche per il suo modo di vestire. Racconta, infatti, Tacito nelle Historiae (libro II, XX) che “ Ornatum ipsius municipia et coloniae in superbiam trahebant, quod versicolori sagulo, bracas, barbarum tegumen, indutus togatos adloqueretur “. Municipi e Colonie lo accusavano di superbia per il suo abbigliamento, in quanto rivolgeva la parola a uomini con la toga, indossando un mantello di vari colori e le brache, indumento barbaro.
I Romani chiamavano brache, nome di origine celtica, un pantalone largo che era il costume nazionale dei Galli: la Gallia Narbonense, nella Francia meridionale, era chiamata, infatti, anche Gallia Bracata, proprio perché i suoi abitanti indossavano le brache.
Indumento barbaro, quindi, rispetto alla toga, ma con un grande futuro. Da recenti rinvenimenti archeologici nella regione cinese del Xinijang sembra che i primi pantaloni della storia risalgano a tremila anni fa, destinati allo specifico scopo di cavalcare. I pantaloni, comunque, erano già presenti fuori dal bacino del mediterraneo alcuni secoli prima dell’era volgare. In occidente, anche se inizialmente osteggiati, perché ritenuti, come abbiamo visto, volgari, in seguito cominciarono, a diffondersi, soprattutto dove era necessario difendersi dal freddo. E, alla caduta dell’impero romano (V secolo), erano ormai parte del guardaroba maschile, con un cammino inarrestabile, pur nella varietà delle fogge e degli usi, fino a conquistare anche il guardaroba del gentil sesso.
Il termine pantalone ha la sua derivazione immediata dal francese pantalon, che a sua volta deriva dalla maschera veneziana di Pantalone, che usava indossare calzamaglia e blusa rosse, coperte da una zimarra, ampia sopravveste larga e lunga. Il tutto legato al fatto che i Veneziani erano particolarmente devoti a San Pantaleone di Nicodemia, a cui è dedicata la chiesa di San Pantalon, dove è custodita una reliquia del santo. In conseguenza a Venezia era molto diffuso il nome di Pantaleone, divenuto nella commedia dell’arte Pantalone: personaggio burbero e avaro, ma anche dagli atteggiamenti bonari, che cade facilmente vittima di inganni e finisce per pagare di tasca propria per rimediare ai danni causati da altri. Da qui il modo di dire tanto chi paga è sempre pantalone. Sull’origine del termine zimarra esistono due ipotesi. La prima lo considera un arabismo, facendolo derivare da sammur, zibellino e, quindi, pelle di questo animale, e, infine, veste di zibellino. La seconda lo considera un iberismo, facendolo derivale dallo spagnolo zamarra, con
probabile derivazione dal basco zamar, vello di montone, in quanto in origine indicava una veste di pelle di montone indossata dai pastori.
E calzoni ? La lingua latina ha due termini omonimi: calx, calcis, con il significato di calce, che in italiano ha generato sia la calce, usata per le malte edilizie, sia il calcio, elemento chimico; e calx, calcis, con il significato di tallone, calcagno, che in italiano ha generato calcio, ad indicare sia la parte inferiore del fucile sia la pedata, colpo dato con il piede, come fanno i calciatori. Ma in italiano si è mantenuto anche il termine calce, che come termine arcaico indicava quello che oggi chiamiamo calcio del fucile, mentre come termine tuttora in uso si trova solo nella locuzione avverbiale in calce, ad indicare, con riferimento al calcagno e, quindi, alla parte inferiore di qualcosa, ciò che è messo in fondo, a piè di pagina, come la firma o una nota. E da calcem, calcagno, è derivato nel latino classico il termine calceum, divenuto nel latino volgare *calcia, ad indicare la scarpa e, per metonimia, la calza, il cui diminutivo è diventato il calzino, mentre il suo accrescitivo è diventato il nostro calzone, usato specialmente al plurale. Va doverosamente ricordato che calzone indica anche una sorta di disco di pasta da pizza, farcito con ingredienti vari, ripiegato a metà e fritto o cotto al forno.
Il termine pantalone entra nell’uso solo alla fine del ‘700 inizio ‘800, mentre calzone è in uso già dal sedicesimo secolo. Nel maggio del 1523, Ludovico Ariosto scrive una lettera a Messer Lorenzo Pandolfini, podestà di Barga, località in provincia di Lucca, per riferire dell’aggressione subita da un famiglio dei frati di San Francesco da parte di tre malfattori, dando, a mo’ di identikit, le seguenti descrizioni di due di essi: uno era di 18 anni in circa con un giubbarello di pignolato negro stracciato, berretta nera, et con calce (calze) da mezza coscia in giù, verde; uno di 25 anni in circa, con giubbone di pignolato bigio con calcioni (calzoni) larghi di tela bianca et berretta nera. Ma Pietro Aretino, nei suoi Ragionamenti, nel 1535 circa, usa già i termini calzette e calzoni.
Le brache, pur essendo ormai un termine arcaico o, comunque, raro, hanno servito egregiamente l’uomo (e la donna), indicando, a seconda dei tempi e degli usi, sia i pantaloni sia le mutande. Inoltre, hanno dato vita ad una nutrita figliolanza linguistica, costituita da modi di dire e da termini derivati. Tra i primi si possono ricordare: portare le brache (o i pantaloni), ovvero volere comandare, riferito, in particolare, alla donna nell’ambito familiare; calare le braghe, cedere, arrendersi (in modo vile); cascar le brache, perdersi d’animo; giocare o perdere le brache, perdere fino all’ultimo soldo; restare in brache di tela, rimanere scornato o senza il becco di un quattrino in caso di raggiro o di rovescio economico; a bracaloni, di calzoni o calze cascanti, tipico del bracalone, persona sciatta e trasandata. Braca è utilizzato, in senso tecnico, per indicare l’allacciatura intorno alla vita e tra le gambe, per sostenere un operaio sospeso nel vuoto, da cui l’imbraca, che, oltre a quest’ultimo significato, indica anche la striscia di cuoio passante dietro le cosce e attaccata alla groppiera degli animali da tiro. E da imbraca deriva imbracare, ovvero fornire di imbracatura, la quale si usa sia sul lavoro per garantire la presa nel corso di operazioni di sollevamento, sia nello sport alpino, come cintura fornita di bretelle e cosciali, cui gli alpinisti fissano la corda che li lega alla cordata.
Passando davanti a vecchi palazzi con tubature esterne, ad esempio il pluviale (dal latino pluviam, pioggia), ovvero il discendente delle acque piovane, si può a volte osservare un raccordo biforcato. Si tratta di una tubatura orizzontale connessa in diagonale ad una verticale, che in conseguenza assume la forma di due gambe, simili a quelle dei pantaloni: ebbene, il nome di braga è stato dato anche a questo raccordo idraulico, il quale per lo più è collocato, soprattutto in configurazioni complesse, all’interno dei muri.
C’è poi la parte meno nobile della famiglia, che unitasi alla s- detrattiva, ha originato sbracalato, uno vestito in modo indecoroso e disordinato; sbracamento, scompostezza nel vestire, nel linguaggio o nei comportamenti; sbracare e sbracarsi, rari per togliere (togliersi) le brache e usato per lo più come termine familiare in senso figurato con connotazione sempre negativa di lasciarsi andare a comportamenti sciatti, come sbracarsi sul divano o magari per sbracarsi dalle risate. Tralasciando termini analoghi come sbracato e sbracatura, è interessante l’uso del superlativo di sbracato che Vincenzo Monti fa in una lettera ad un suo amico. Siamo nel novembre del 1809, Monti ha circa 55 anni e dovendo giustificare il ritardo nel rispondere al suo amico Ferdinando Arrivabene, così scrive in modo colorito:
Mio caro amico,
Una fiera tosse e convulsione di petto che da venti e più giorni mi sconquassa senza riposo, la mia lagrimazione di occhi, che sempre peggiora, la malinconia, che mai non mi abbandona, disturbi senza fine sofferti per la costrizione d’un mio nipote, ch’è stato rassegnato per la guardia d’onore, e non vorrebbe saperne, finalmente una sbracatissima cacarella che appena mi ha lasciata l’anima in corpo, ecco alcune delle ragioni del mio tardo rispondere alla tua carissima.
E per finire, il canto popolare, intonato dalle mondine del Novarese e del Vercellese all’approssimarsi del giorno di paga:
Sciur padron da li beli braghi bianchi, fora li palanchi.